All’alba dell'11 agosto del 2018 ho raggiunto i 5895 metri di Uhuru Peak, il punto più alto della montagna più alta del continente africano, il celeberrimo Kilimanjaro.

Ho fatto il trekking per passione dell’escursionismo e dei viaggi, perché era una prova difficile ma non impossibile, e perché semplicemente mi era stato proposto da un mio caro amico e ho deciso di buttarmi in questa avventura. Nessuna menata motivazionale sullo stile degli “Awesomeness motivational posters” di Stinsoniana memoria.

Mettendo a posto un po’ di scartoffie, mi è capitato sottomano il diplomino che rilasciano ai summiter e ho pensato: ma non è curioso che lo svolgimento del trekking abbia molte analogie rispetto allo sviluppo software? Che cosa ho avuto modo di imparare?

Summit diploma
Il diplomino di vetta

Organìzzati bene

La preparazione al viaggio è fondamentale: i costi sono alti e una sola scelta sbagliata può compromettere tutto. Abbiamo scelto un’agenzia locale consigliata dalla nostra sezione SAT, con buone referenze. Nonostante la comunicazione confusa del responsabile (“All is clear”, scriveva in ognuna delle circa 50 email scambiate, seguita da un misterioso “Stay tuned for more details”), abbiamo deciso di fidarci e di versare un anticipo consistente. Col senno di poi, è stata la scelta migliore: tutto è andato alla perfezione, risparmiando anche parecchio.

Nello sviluppo software funziona allo stesso modo: senza una pianificazione adeguata (architettura, tecnologie, team, tempi) il rischio di non raggiungere il risultato diventa elevato. A volte, neanche si parte :)

Comunque, organizzarsi va bene, ma poi bisogna essere pronti a risolvere i problemi e a gestire gli imprevisti.

Fai una preparazione adeguata

Per salire il Kilimanjaro bisogna essere abbastanza in forma, non giriamoci intorno. Nulla di stratosferico, ma è necessario essere in grado di compiere escursioni da 1000+ metri di dislivello senza ridursi ai minimi termini, e riuscire a farlo per due, tre giorni consecutivamente. È anche importante, se possibile, provare ad acclimatarsi prima della partenza, così come ho fatto io nei due weekend precedenti salendo a più di 3500 metri (Monte Vioz e Monte Cevedale).

Analogamente, chi si occupa di sviluppo software deve conoscere gli strumenti che usa a un buon livello, e, se non li conosce, deve avere la capacità di imparare e migliorare, in pratica deve allenarsi.

Passo dopo passo, senza esagerare

Durante il trekking, le guide non facevano altro che ripeterci “Pole pole”, cioè procedere al ritmo giusto - cioè lento - passo dopo passo, godendosi il più possibile l’esperienza. Era importante non esagerare col ritmo e, credetemi, non sono mai andato così piano in montagna. Ho potuto osservare persone che invece avevano scelto di tagliare una tappa perché si sentivano in forma, magari sportivi con la mania dei tempi, sempre a guardare l’orologio invece del paesaggio. Ecco, queste persone sono scoppiate dopo qualche tappa, il mal di montagna non perdona.

Col software non è poi così diverso: nelle fasi “tranquille” di un progetto le cose vanno fatte cum grano salis, pensando, senza correre, prediligendo la qualità, per essere pronti quando c’è da spingere e per non scoppiare prima del tempo.

Le guide Donovan e Kijaji
Le guide Donovan e Kijaji

Gestire le difficoltà (1)

Un punto in particolare del trekking mi dava pensieri: il cosiddetto Barranco Wall. Una paretina di circa trecento metri da salire dopo la tappa della Lava Tower (prima volta a 4400 metri, potenziali problemi di mal di montagna). Data la mia scarsa voglia di mettere le mani sulla roccia e il discomfort che provo per l’esposizione, prima di partire ho provato a capire in ogni modo che cosa mi avrebbe aspettato, ma semplicemente non è stato possibile. Beh, il giorno fatidico mi sono detto “Gambe in spalla, zero stress” ed è andato tutto bene. D’altronde, non c’era altra soluzione, no? Ma è stato così facile che mi sono sentito un po’ sciocco a sovrastimare la situazione.

Anche col software è così: è importante non fasciarsi la testa prima di rompersela. Una soluzione la si trova sempre, in fin dei conti è il nostro lavoro!

Gestire le difficoltà (2)

Per contro, durante il giorno della vetta ho avuto molte difficoltà legate al mal di montagna: nausea, fatica, voglia di fermarsi (e di tornare indietro), freddo eccessivo. Intendiamoci, la tappa della vetta è tosta: ci si sveglia alle 23 dopo aver “dormito” a 4600 metri nel pomeriggio/sera. Si fa colazione, cercando di mangiare e bere quanto più possibile. Ci si prepara (si indossano tutti gli indumenti a disposizione) e si parte. 1300 metri di dislivello molto ripidi, di notte, col frontalino, con vento gelido. Se non ci fosse stata la mia guida Donovan ad aiutarmi mentalmente, a spingermi a fermarmi il meno possibile, e a portare il mio zainetto, non ce l’avrei fatta. Ci ho messo del mio, sicuramente, ma il suo aiuto è stato fondamentale.

Quando si lavora a un progetto possono esserci dei momenti di difficoltà: vanno condivisi col team, ci si lavora insieme, bisogna farsi aiutare. In fin dei conti, in un team sano il commitment è collettivo, tutti hanno interesse a favorire il successo del progetto.

Goditi il successo

All’alba sono riuscito finalmente ad arrivare sul bordo del cratere sommitale, Stella Point. Sarebbe mancata poco più un’oretta di cammino, quasi in piano, per giungere in vetta. Stavo male, ma non così male, quindi ho capito che ce l’avrei fatta. Mi sono goduto l’alba più bella della mia vita e poi ho ripreso il cammino in preda alla commozione. Nella mia testa cantavo la canzoncina del Kilimanjaro, e ogni tanto mi asciugavo le lacrime per evitare che gelassero sul mio viso. È stato sicuramente uno dei momenti più emozionanti che io ricordi.

Ora, non esageriamo: quando un progetto finisce e va tutto bene, non si provano sensazioni così forti. È importante però prendersi un attimo per godersi appieno una fase che si conclude e magari va fatto con tutto il team (che sia un pranzo, una cena, anche quando ero full remote facevamo sempre il possibile per riunirci). È anche così che si cementa un team, creando rapporti umani importanti che prescindono dalla sfera professionale.

La meravigliosa alba a Stella Point
La meravigliosa alba a Stella Point

L’importanza del team

Per salire sul Kilimanjaro è obbligatorio (e oltremodo necessario) pagare un team, sono le regole del parco nazionale. Il team dev’essere composto da guide certificate, portatori e un cuoco, e il numero di persone varia ovviamente in base a quanti intendono salire sulla montagna. Per due persone, comunque, servono 2 guide, almeno 6 portatori (più 1/2 portatore “fantasma”) e un cuoco. Ciascuno con i suoi compiti ben precisi: quello delle guide è stare sempre al tuo fianco, dettare il ritmo, darti qualche nozione su fauna, flora e paesaggio, assisterti in caso di bisogno. I portatori partono dopo perché devono smontare il campo e arrivano prima perché devono rimontarlo. Il cuoco, ovviamente, cucina per tutti. Sarà stata la quota, la fatica, ma credetemi, raramente ho mangiato così bene in montagna!

Senza un team così in vetta non ci si arriva: sarebbe un’impresa da atleti di prim’ordine. È così anche col software: team coeso, a ciascuno i suoi spazi e i suoi compiti, interazioni continue, dialogo aperto. È la chiave non solo per arrivare alla fine di un progetto, ma per farlo con soddisfazione. Il mio approccio, così come è stato durante il trekking, è quello di provare a conoscersi meglio, parlare, abbracciare le diversità e stabilire un contatto umano. Un professionista vero è prima di tutto un essere umano.

Il mitico portatore con la giacca di similpelle
Il mitico portatore con la giacca di similpelle che è venuto a salutarci a metà discesa

Pole pole

Quando Donovan mi disse “Pole pole” per l’ennesima volta, pensai che fosse solo un modo per non farmi scoppiare prima della vetta. Col senno di poi, era molto di più: era un approccio alla vita e al lavoro. Non si tratta di correre o di dimostrare qualcosa a qualcuno, si tratta di arrivare dove si vuole arrivare nel modo migliore possibile.

Ho capito che scalare una montagna e sviluppare software insegnano la stessa cosa: la competenza tecnica è solo una parte. Il resto è sapere quando rallentare, quando chiedere aiuto, quando ammettere “non ce la faccio da solo”. Che sia un mal di montagna a 4600 metri o un bug che non riesci a risolvere da tre giorni, il principio non cambia.

Il Kilimanjaro ormai è alle spalle. Io, invece, continuerò a sviluppare software. Ma almeno adesso so che, se ho tenuto il ritmo giusto lassù a 5895 metri col vento gelido e il mal di montagna, posso affrontare qualsiasi cosa davanti a una tastiera. Pole pole.

In vetta!
In vetta!